La giurisprudenza ormai pacifica ritiene che la responsabilità dell’ente ospedaliero abbia natura contrattuale di tipo professionale qualora riguardi i danni subiti dal paziente a causa della non diligente e/o negligente esecuzione della prestazione medica con conseguente applicabilità della disciplina prevista dagli art. 2229 seg cc ivi compresa la disposizione di cui all’art 2236 cc sul presupposto che l’affermazione della responsabilità dell’ente consegue al comportamento non diligente dell’operatore sanitario.
L’accettazione del paziente in ospedale ai fini di ricovero o di visita ambulatoriale comporta la conclusione di un contratto (Cassazione Civ. 9085/2006, Cassazione Civ. n. 1698/2006) posto che il ricovero del paziente in struttura pubblica, deputata a fornire assistenza sanitaria, avviene sulla base di un contratto tra il paziente stesso e il soggetto gestore della struttura e l’adempimento di tale contratto con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria è regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell’ambito del contratto di prestazione di opera professionale con la conseguenza che il gestore risponde dei danni derivanti al paziente da trattamenti sanitari praticati con colpa e negligenza alla stregua delle norme di cui agli art 1176 e 2236 cc (Cassazione Civile n. 6386/01).
La stessa Corte Regolatrice ha chiarito come la limitazione della responsabilità medica ai casi di dolo e colpa grave alla stregua dell’art 2236 cc deve intendersi limitata ai soli casi di perizia per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà e non va rapportata ai casi di negligenza e imprudenza nei quali la responsabilità deve essere affermata in ogni caso (Cassazione Civ. 6093/2013);
L’ente ospedaliero deve ritenersi responsabile anche alla luce dell’art 1218 cc in quanto gestore di un servizio pubblico sanitario risponde a titolo contrattuale dei danni subiti dal privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica (Cassazione n. 1620/2012);
Di recente la Suprema Corte ha asserito come nelle obbligazioni c.d. di comportamento coincidenti con quelle tradizionalmente definite di mezzi, in cui è la condotta del debitore ad essere dedotta in obbligazione, occorre sempre avere come punto di riferimento il caso concreto con la consequenziale individuazione del cd “punto zero” che implica la compiuta considerazione della chiarezza sintomatologia sin dal momento del ricovero, del ritardo nell’iter diagnostico e nel conseguente ed eventuale intervento chirurgico. Ne deriva che l’omissione di accertamenti, di diagnosi tempestive o la loro tardata esecuzione deve considerarsi probante in guisa della “elevata probabilità” di guarigione che si sarebbe ottenuta con una tempestiva azione (Cassazione Civile n. 768/2016);
Per concludere, la completa assenza di assistenza sanitaria costituisce elemento preponderante ai fini del determinismo dell’evento morte del paziente e qualora fosse stata effettuata la seppur minima attività clinica nel predetto intervallo temporale (peraltro ritenuta essenziale ed indispensabile secondo le principali linee guida anche nella errata diagnosi formulata di colica renale) le chances di sopravvivenza del paziente si sarebbero incrementate notevolmente.
Per pacifica giurisprudenza coloro che al momento del decesso si trovavano in una relazione affettiva con la vittima hanno diritto al risarcimento del danno patito a causa dell’evento luttuoso con riferimento alla menomazione definitiva che subisce detta relazione, c.d. detto danno da perdita parentale che deve necessariamente rapportarsi e parametrarsi a determinati fattori quali il rapporto di parentela (dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto), l’età del congiunto, l’età della vittima. La Suprema Corte ha altresì evidenziato come l’interesse fatto valere attenga all’intangibile sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, nonché all’inviolabile libertà di piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana all’interno della famiglia. Tale interesse di rilievo costituzionale, non avente natura economica, può essere oggetto di una riparazione ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato (Cassazione Civile n. 2557/2011). La stessa giurisprudenza asserisce come in tali casi debba essere evitato ogni vuoto risarcitorio e debba necessariamente tutelarsi lo sconvolgimento delle normali abitudine di vita che subiscono i superstiti (Cassazione Civile n. 19402/2013), e ciò a prescindere dal requisito della convivenza, poiché attribuire a tale situazione un rilievo decisivo porrebbe ingiustamente in secondo piano l’importanza di un legame affettivo e parentale la cui solidità e permanenza non possono ritenersi minori in presenza di circostanze diverse che comunque consentano una concreta effettività legame affettivo (Cassazione penale del 4 giugno 2013 n. 29735, Cassazione Civile 19 gennaio 2007 n. 1203 in Giust. civ., 2007, I, 1097 s., Tribunale di Firenze n. 1011/2015).